Intervista all'Ing. Gianni Marelli

L'uomo dei sogni

Dicono che nella vita non capita mai nulla per caso! Sinceramente non so se sia sempre così, ma per quanto riguarda l'argomento di questo articolo mai detto è stato più appropriato. Perché, è giusto che lo sappiate, quest'intervista nasce dal caso! E anche più particolare è il fatto che la stessa l'abbia fatta il sottoscritto, che inizialmente con l'argomento aveva davvero poco a che fare. Ma andiamo per ordine. Tutto è cominciato nel maggio scorso quando una sera ricevetti la telefonata settimanale di Stefano Costantino: era impegnato a scavare minuziosamente nei misteri della March 711. Tra un problema e l'altro salta fuori il fatto che sulla seconda motorizzazione della vettura, il V8 Alfa Romeo, proprio non si riusciva a sapere nulla. Il giorno successivo chiamai immediatamente la responsabile dell'archivio storico dell'Alfa Romeo per richiedere tutto il materiale disponibile a tal proposito, ma mi sentii ben presto rispondere che la documentazione sui motori Alfa da Formula 1 partiva dal 1975. A questo punto ammetto di essere caduto nel pieno sconforto: come fare per avere informazioni se persino in archivio non c'era nulla? A salvarci fu la disponibilità della mia interlocutrice. Se era infatti vero che in archivio non compariva nulla, era anche vero che il responsabile di quel progetto godeva di ottima salute e per di più, mi venne detto essere anche molto cortese: al consiglio si aggiunse la mail dell'interessato. Mi informarono che si trattava dell'Ingegner Marelli: li per li rimasi un po' spiazzato ma ben presto mi ritornò alla mente che si trattava di un ex-ferrari. A quel punto inviai subito una mail all'Ingegnere e da li a pochi giorni ebbi modo di parlargli telefonicamente. Una telefonata durata più di mezz'ora, grazie alla quale riuscimmo a togliere un po' di mistero dal fatidico motore. Caso volle che nel corso del colloquio ci mettemmo a parlare delle altre sue esperienze in F1 e venne spontaneo il chiedergli se era disponibile per un'intervista che, infine, è stata realizzata il 29 giugno in un ristorante di Greggio (Vercelli). Un colloquio aperto nel quale l'Ingegner Marelli si è raccontato, regalandoci storie inedite di altri tempi: quelle che fanno di Gianni Marelli "l'uomo dei sogni".

Il curriculum

Nato a Gallarate, Gianni Marelli, dopo essersi laureato in Ingegneria Meccanica presso l'Università di Padova, è stato direttore tecnico-sportivo del reparto corse dapprima della Ferrari ('66-'71), poi dell'Alfa Romeo presso l'Autodelta ('71-'81). A partire dal 1981 decide di affrontare una nuova avventura dando vita alla M.c.M. Motor car, per la quale negli anni successivi sarà impegnato come consulente di aziende leader nel settore: dapprima progetta e produce i primi telai in fibra di carbonio per la Lola-Indy ('82-'83), poi studia i motori Zakspeed per IMSA e Formula 1. Nel 1988 progetta un telaio per la First Racing di Lamberto Leoni che poi, dopo il prematuro ritiro della scuderia, sarà rivisto ed utilizzato nel 1990 dalla Life per ospitare il W12 di Rocchi. Infine, nel 2002 è stato consulente per la Durango in occasione della 24 ore di Le Mans.

L'intervista

Ingegner Marelli, se lei è d'accordo direi di incominciare con una domanda che con tutta probabilità le sarà stata rivolta più di una volta: come si diventa Ingegnere di Formula 1?

Personalmente sono convinto che, indipendentemente dal ruolo cui si ambisce in un Team di F1, l'importanza maggiore sia da ricercarsi nella passione per questo sport, e la mia storia ne è una dimostrazione! Quando ero un ragazzo desideravo con tutto me stesso di diventare un pilota e questa passione, legata all'interesse di conoscere il più accuratamente possibile le auto da corsa, mi portò ad iscrivermi alla facoltà di Ingegneria a Milano.

A questo punto sorge spontanea una domanda: ebbe modo di tentare la carriera da pilota?

No! Ben presto dovetti accettare il fatto che alla mia famiglia questa prospettiva non piaceva affatto. Per un po' di tempo tentai di fare di testa mia, arrivando al punto di interrompere l'università per dedicarmi all'insegnamento della matematica alle scuole medie in attesa di raggiungere la maggiore età, che al tempo era fissata per i 21 anni. Ma il mio progetto era destinato a fallire! Mio padre, deciso come non mai, mi disse che così come avevo voluto iscrivermi ad Ingegneria, adesso dovevo terminarla. Mi fece salire in macchina (l'ingegnere ricorda anche la data: 25 febbraio) e mi portò a Padova presso l'Istituto benedettino: l'idea iniziale era quella di farmi entrare all'Antoniano, ma li accettavano solo studenti in corso, mentre io, a causa dell'interruzione, non lo ero. Comunque al celebre Istituto entrai l'anno successivo, dopo aver recuperato gli esami lasciati indietro presso l'università di Padova a cui mi ero iscritto.

In questo modo suo padre si era garantito da che lei potesse intraprendere la carriera da pilota, o almeno che ciò non avvenisse prima che ultimasse gli studi!

Eh si, devo riconoscere che quel giorno dovetti archiviare un sogno. Però fu l'inizio di una nuova avventura. Alla fine del terzo anno ritornai a casa per il periodo estivo e come ero solito fare ormai da anni, non persi l'occasione di andare ad assistere alle prove della Ferrari a Monza. A quei tempi non c'erano i controlli asfissianti dei giorni nostri e anche se le prove erano riservate e nessun giornalista era ammesso in pista, era più facile "intrufolarsi" nei box. Così, un giorno, mentre da un box laterale ero intento ad osservare il frenetico lavoro dei meccanici di Maranello, mi sentii posare una mano sulla spalla. Quando mi voltai e vidi di chi si trattava, un brivido mi percorse il corpo: era Enzo Ferrari! Mi chiese subito cosa facessi così vicino alle macchine ed io, con un senso di inquietudine, gli risposi e mi offrii di lasciare la zona qualora la mia presenza arrecasse il seppur minimo disturbo. Ma invece di dar seguito a questa eventualità, Ferrari si mise a farmi tutta una serie di domande per comprendere cosa facessi e quali fossero le mie aspirazioni. Alla fine dell'incontro, con un filo di sfacciataggine, gli dissi che mi sarebbe piaciuto fare uno stage in Ferrari prima di laurearmi e, prima di lasciarci, ci accordammo affinché ciò avvenisse alla fine del quinto anno universitario. Così mi ritrovai a vivere due anni di studio in attesa di quel momento, quasi fosse la mia ragione di vita. Ogni anno tornavo a Monza per le prove estive e quando arrivava Ferrari non perdevo occasione per ricordargli la promessa fattami: ma la parola del Commendatore non si discuteva e quando arrivò il momento e lo chiamai, non avanzò alcuna obiezione ad "ospitarmi" in fabbrica per un mese e mezzo.

Quindi ancor prima di laurearsi aveva già un piede in Ferrari. Un'occasione davvero unica!

Devo dire che si trattò di una permanenza davvero felice ma a differenza di ciò che si potrebbe pensare, una volta laureatomi dovetti attendere un po' di tempo prima di entrare in pianta stabile a Maranello.

Una gavetta forzata all'esterno immagino. Le toccò abbandonare per un periodo il mondo dell'automobile?

Non proprio: dopo essermi laureato in novembre, lavorai per tre mesi in Autobianchi, presso il grattacielo Pirelli, e successivamente accettai un'offerta fattami dalle raffinerie della Esso. Ma io ovviamente continuavo a sognare la Ferrari! Così una domenica presi la macchina e scesi fino a Maranello, dove però mi venne detto che il Commendatore era impegnato altrove. Prima di uscire dagli stabilimenti mi ricordai che quando rientrava in fabbrica era solito fermarsi all'ingresso per chiedere al custode se erano arrivati dei telex (più o meno l'equivalente degli attuali fax). Domandai allora se volessero farmi la cortesia di avvisarlo della mia visita, precisando che avrei avuto piacere di parlargli. Quando, verso le 11.00, ripassai, mi venne data notizia che sarei stato ricevuto alle 13.00.

Una situazione da cardiopalma immagino: da quell'appuntamento dipendeva il suo futuro, ma conoscendo a priori la sua carriera evinco che fu trovato un accordo.

Riconosco che fu un'incontro pieno di contenuti. Parlammo di molte cose, ma soprattutto tenne a farmi presente tutte le limitazioni che comportava il lavorare in Ferrari. Ricordo in particolar modo una frase che mi colpì: mi disse che essere in Ferrari significava fare la stessa vita che si faceva in un castello assediato: quelli all'esterno volevano entrare, quelli all'interno volevano uscire. Alla fine ci accordammo per un posto come assistente di Forghieri, che allora era responsabile dell'intero settore corse.

Monza 1968: l'Ing.Marelli vicino alla Ferrari F2 con motore Dino 6 cilindri a condotti singoli (12 tubi di scarico e 12 trombette di aspirazione). Sullo sfondo un giovane Vittorio Brambilla ed il giornalista Nestore Morosini.

In tale veste le vennero date delle mansioni specifiche o incominciò con un'attività formativa generica?

Fui subito messo in campo a pieno ritmo: dapprima riprogettammo totalmente la F2 con cui Ferrari non riusciva ad imporsi ottenendo alcune significative vittorie, tra le quali quelle alla Temporada, a Vallelunga e ad Hockenheim, poi ci concentrammo sulla costruzione di una macchina che potesse competere contro le Alfa 33 nelle gare in salita. Ricordo ancora che prendemmo il vecchio 12 cilindri 1.500 da F1 messo tempo prima in un angolo in quanto totalmente mancante di coppia, lo portammo a 2.000cc., studiammo una nuova testa a 4 valvole per cilindro, gli accoppiammo il cambio di F1 a tre assi e il tutto fu assemblato sul telaio della Dino (va ricordato che da quel motore nacque la famiglia di 12 cilindri 3.000 boxer che "finirono" sia sulle Formula 1 che sui prototipi). Quello fu probabilmente il progetto più riuscito: quell'anno vincemmo tutte le gare e, nonostante potessimo contare su di un validissimo pilota qual'era Peter Schetty, ci fu modo di dimostrare che la vettura era davvero imbattibile.in tutte le condizioni.. Contemporaneamente fui anche coinvolto nei programmi di Formula 1 e Sport prototipi. Li ci furono momenti difficili come la terribile giornata di Daytona nel 1970: quel giorno le nostre 512S ruppero i telai e l'unica capace di vedere il traguardo necessitò una lunga riparazione ai box. Una giornata davvero campale!

Monza 1968 - Gran Premio d'Italia di F1: ultime indicazioni a Derek Bell prima del via.
Modena 1969: prime prove di Clay Regazzoni sulla Dino 166 F2. Oltre all'Ing.Marelli si riconoscono da sinistra il giornalista Pino Allievi, il capomeccanico Giulio Borseri ed il fotografo-giornalista Giancarlo Cevenini.

Quella corsa credo sia rimasta nel libro nero della Ferrari, ma c'è da dire che il mese successivo riusciste a rifarvi alla 12 ore di Sebring. In quell'occasione, nonostante i mille problemi, le vetture di Maranello la fecero da padrona.

Si, li ci siamo davvero tolti una gran soddisfazione, ma che fatica! Fin dalla partenza Andretti, Ickx e Giunti avevano dato l'impressione di poter reggere il ritmo delle Porche 917, che da par loro dovettero presto vedersela con tutta una serie di inconvenienti tecnici. Così ci trovammo allo scoccare della settima ora con le tre 512 in testa e con il primo degli inseguitori a nove giri. Sembrava davvero fatta, ma prima la rottura del motore sulla vettura di Ickx, poi la foratura occorsa a Vaccarella (in coppia con Giunti), cominciarono a farci temere per il peggio.

A ciò si aggiunse la rottura del cambio sulla vettura pilotata da Andretti-Merzario a un'ora e mezza dalla fine. Ricorda il clima che si viveva in quei minuti ai box?

Una situazione difficile, nella quale nessuno voleva prendersi la responsabilità di decidere. Mario, primo, fermo ai box con il cambio semigrippato, la 917 di Rodriguez-Siffert-Kinnunen in seconda posizione e Vaccarella terzo ad un giro di distacco dalla Porsche. Perso per perso decisi di prendere l'iniziativa: feci scendere Mario dalla vettura e dopo una sommaria riparazione la misi nelle mani di Merzario per tentare di raggiungere il traguardo e, allo stesso tempo, presi da parte Giunti. Gli dissi che intendevo far salire sulla sua 512 per l'ultimo turno di guida Andretti, nel tentativo di recuperare il giro di svantaggio su Rodriguez. Nell'ultima ora Mario si cambiò con Vaccarella e cominciò un recupero incredibile, aiutato provvidenzialmente da una foratura occorsa a Rodriguez a 20 minuti dalla fine.

Obiettivamente c'è da dire che Andretti era solito a certe rimonte...

...rimonte incredibili! Alla fine della gara salii sulla vettura, mi accorsi che il parabrezza era un moscerino unico cosa che non consentiva di vedere praticamente nulla. Quando poi mi rivolsi a Mario chiedendogli come avesse fatto a guidare in quelle condizioni con un sorriso accattivante mi rispose: "ingegnere, io a Sebring giro a memoria!"

A questi bei ricordi si affiancano però quelli meno gradevoli del quasi obbligato passaggio all'Alfa Romeo. Quali furono le motivazioni che la portarono ad abbandonare il Commendatore e la sua scuderia?

Certamente non si trattò di problemi con Enzo Ferrari, con il quale al contrario si era instaurato un ottimo rapporto. Purtroppo però il clima tra me e Forghieri era divenuto insostenibile. Nel corso delle prove di Daytona ero andato con le prime ombre della sera sul banking per osservare il comportamento delle vetture. Dopo un po' mi accorsi che in frenata i dischi delle 917 del team Gulf-Porsche diventavano verdi, fatto anomalo in un periodo in cui si utilizzavano dischi in ghisa che all'aumentare della temperatura si tingevano di rosso. La spiegazione andava ricercata nel fatto che erano allo studio i dischi al berilio che se surriscaldati divenivano verdi. Mi incamminai verso i box e a metà strada incontrai David Yorke, team manager del team, al quale dissi di essermi accorto della novità messa in pista sulle loro vetture. Mi pregò di mantenere il segreto sul loro esperimento fino alla fine della gara in modo che non si potesse speculare sulla cosa e io detti la mia parola. Il giorno successivo Wyer mi chiese di raggiungerlo nel suo box e dopo avermi ringraziato mi fece un'offerta per lavorare con lui, offerta che però io declinai: in Ferrari mi sentivo in famiglia e non vedevo il motivo di cambiare. Sfortunatamente quando dopo Sebring rientrai in Italia, ad aspettarmi non trovai un clima di festa, bensì un Forghieri quanto mai deciso ad eliminarmi dalla direzione della squadra. Disse al Commendatore che alcuni giornalisti lo avevano informato del fatto che in Porsche erano neri perché mi avevano trovato nel loro box intento a spiare le loro soluzioni tecniche. Ovviamente respinsi l'accusa e spiegai i motivi che mi avevano portato a far visita a Wyer, ma ormai la relazione era rotta. Dopo alcuni mesi ricevetti un'interessante offerta dall'Autodelta e accettai immediatamente. La cosa che ancor oggi mi lascia l'amaro in bocca è l'aver dovuto abbandonare Ferrari, che con me era stato davvero molto generoso accogliendomi nella sua famiglia, dandomi piena fiducia ed un affetto quasi filiale.

All'Autodelta però dovette trovare un bell'ambiente, se è vero che ci rimase per dieci anni. Di quali progetti si occupò?

Beh, in così tanti anni ebbi modo di seguire numerose attività: principalmente la Formula 1 ma anche GTA, GTM, Rally, 33. Poi ricordo anche il progetto della 33 stradale per Andruet.

Se si esclude lo studio che fece sui motori Alfa nel '71 (la cui storia e caratteristiche si possono analizzare nell'articolo dedicato alla March 711), la sua attività in Formula 1 per l'Alfa fu fortemente legata alla rivoluzionarie wing-car. Una formula cui le vetture di Arese sfortunatamente non si adattarono mai perfettamente.

Quando prendemmo in mano il progetto per il V12 di minigonne non si parlava ancora, ma il periodo più intenso fu quello che ci vide protagonisti non solo come fornitori di motori alla Brabham ma come team vero e proprio. Quando progettammo la prima monoposto, di effetto suolo si cominciavano solo a vedere i primi risultati ma già nel 1979 dovemmo affrontare il problema. La nostra sfortuna fu quella di trovare una competitività solo alla vigilia dei ribaltoni in quanto a regolamenti tecnici FISA. Ogni volta che raggiungevamo una buon livello di competitività i regolamenti cambiavano costringendoci a ricominciare da capo: fu molto stressante anche perchè la direzione non permetteva di sfruttare le pieghe del regolamento, come facevano invece gli inglesi e in particolare la Brabham.

Credo si riferisca al 1980/81.

Quello direi che fu proprio l'apice. Dopo tante prove ci presentammo al GP degli USA a Watkins Glen con una vettura davvero competitiva, tant'è che Giacomelli ottenne la Pole con discreta facilità. Per la gara ci sentivamo davvero sicuri, ma sfortunatamente Chiti, la sera del sabato, fu convinto a spostare la bobina d'accensione fissandola sull'attacco dell'alettone nel cambio. Il giorno successivo le maggiori vibrazioni di quell'attacco ne provocarono la rottura, ma fino a quel momento il ritmo di gara era stato insostenibile per gli avversari: Giacomelli era andato in testa al via e a metà gara aveva oltre 30 secondi di vantaggio quando il motore si ammutolì. Poi la Fisa cambio le norme sulle minigonne e ci ritrovammo di nuovo in difficoltà. In pratica il problema che ci trovammo ad affrontare fu quello di dover costruire le bandelle in un solo materiale soffice che però, sfregando sull'asfalto, non si consumassero. Scoprimmo che per Renault e Ligier le costruiva una società francese e cercammo di studiarne la composizione: si trattava di una struttura in poliuretano che nella parte di ancoraggio alla scocca era molto soffice, mentre nella parte bassa veniva caricata con degli additivi che la rendevano molto più resistente. Ovviamente mi fu proibito di utilizzarle e quelle da noi prodotte non raggiunsero mai quel livello di resistenza. In ogni caso il periodo delle bandelle fu quasi pionieristico: per molte cose ci vollero mesi se non anni per capirne il vero funzionamento. Ci fu per esempio un lungo studio sul ruolo degli alettoni anteriori e posteriori: inizialmente si credeva che fornissero la maggior parte del carico aerodinamico, poi invece si comprese che più che altro contribuivano ad aumentare la depressione sotto la monoposto. Fu per questo che in quegli anni si utilizzarono ali dalle forme e posizioni singolari...

Balocco 1981: a colloquio con Mario Andretti

... mi permetta di interromperla! Se gli alettoni anteriori avevano questa utilità, perché in quegli anni si arrivò a toglierli?

Per equilibrare la vettura e per ridurre la deportanza sull'asse anteriore quando diventava eccessiva. Si trattava tuttavia di una scelta la cui importanza era relativa, basti pensare che la coppia Pironi-Villeneuve fece gara alla pari nel GP di San Marino del 1982, l'uno con ala l'altro senza.

Nel 1981 decise di aprire la MCM Motor car! Una nuova avventura che la portò a numerose attività di consulenza in Formula 1.

Si, quell'anno mi misi in proprio. Ricordo che uno dei primi lavori che mi vennero commissionati fu quello di trovare una fornitura di bandelle per il Team Patrick in Indycar. In verità si trattava di un favore personale verso Mario Andretti, che di quella squadra era il pilota di punta. Alla fine riuscii ad ottenere quel materiale proprio dalla casa francese che le forniva alla Renault e alla Ligier e le misi a disposizione per la 500 Miglia di Indianapolis del 1982. Per quell'evento le vetture di Mario e Johncock avevano queste nuove bandelle, cosa che rese più competitive le vetture. Peccato solo che alla partenza Cogan non trovò niente di meglio da fare che tamponarlo, costringendolo al ritiro, evento che però non bastò a rovinare la festa alla Patrick. Sul traguardo Johncock precedette Mears, aggiudicandosi per la seconda volta la competizione e divenendone il vincitore più anziano con i suoi 45 anni (record poi battuto da Al Unser). Se escludiamo questa parentesi lavorativa, il primo vero lavoro fu la costruzione dei telai in fibra di carbonio per la Lola di Formula Cart.

Balocco 1981: l'Ing. Marelli sulla '159' per una foto di rito.

Poi nell'84 ci fu l'inizio di una lunga collaborazione con Erich Zakovski per la costruzione di un motore sovralimentato da Formula 1.

La collaborazione con Erich ebbe inizio quando la Ford gli commissionò lo studio di un motore da impiegare nella serie Imsa. Il tecnico tedesco ebbe l'idea di progettare un'unità quattro cilindri con un duplice scopo: da questa base voleva derivare una versione Imsa da 2150cc e una di 1500cc da utilizzare in F1. Alla fine la Ford rifiutò l'idea di finanziare anche la versione più piccola e Zakovski decise allora di utilizzare i proventi ricavati dal contratto con la casa di Detroit per costruirla da se. Accettai l'idea di proseguire il lavoro e iniziai la conversione dall'unità più grande in quella più piccola, lavoro che per la verità non richiese troppo tempo dato che si trattò principalmente di sostituire le canne cilindri e la distribuzione. Problemi più grossi si presentarono invece sulla parte elettronica, soprattutto in relazione alla sovralimentazione, cui si aggiunsero i dubbi legati all'utilizzo delle turbine Garrett o delle Kkk: alla fine optammo per queste ultime. Si trattava comunque di un motore che utilizzava soluzioni inedite, come la testa con diaframmi per il raffreddamento trasversale, studiata dall'allora giovane Norbert Kreyer con cui si instaurò un piacevole e produttivo lavoro di sviluppo del motore, facilitato dalla sua intelligente capacità operativa e progettuale.

La sua collaborazione con il Team tedesco durò fino alla fine del 1987, anno che segnò di fatto la fine dello sviluppo dei motori sovralimentati. Quali furono i problemi che impedirono alla vettura di raggiungere livelli di alta competitività in quegli anni?

si parlò un po' di tutto! Dapprima Palmer, il primo pilota della scuderia, si lamentò dell'erogazione del motore, a suo dire troppo violenta, poi si incominciò a mettere in dubbio il telaio (Zk851), obsoleto in quanto progettato secondo i regolamenti vigenti fino al 1984. Con la 861 si mise nuovamente in discussione il motore, reo secondo i vertici della squadra di fornire troppi pochi cavalli; infine l'uscita del modello 871 dimostrò che molti dei problemi andavano imputati al telaio. Ricordo che per la gara d'esordio a Imola era disponibile un solo nuovo telaio che fu dato a Brundle mentre Danner dovette utilizzare il modello precedente. Alla fine del venerdì il divario sulla velocità di punta era impressionante rispetto ai primi: oltre 20 km/h. Al sabato si rifece assetto e aerodinamica sulla monoposto: la velocità fu subito veloce e la velocità massimo salì ai primi posti. La domenica la competitività della vettura consentì addirittura di agguantare un ottimo quinto posto nonostante si fosse stati costretti a partire dalla corsia box.

Riassumendo potremmo dire che il tallone d'Achille fosse da ricercare nei telai e non nel motore...

Principalmente si, ma con ciò non intendo scaricare tutte le colpe su questa componente. Il nostro motore raggiunse buoni livelli ma un'ulteriore crescita ci fu impedita dalle scarse forniture dal punto di vista elettronico. Zakspeed era una piccola realtà legata solo alle corse e ciò faceva si che i fornitori si concentrassero maggiormente su BMW, che al contrario vantava una grande commercializzazione. Infine la squadra era fatta di tecnici giovani che spesso mancavano di esperienza cosa che non aiutava certo a crescere con continuità.

Chiusa l'esperienza con la casa di Niedersizzen, si trovò di fronte allo studio di una monoposto commissionatale da Leoni per partecipare al mondiale di Formula 1 1988. Poi però ci fu il ritiro repentino della First e il progetto venne venduto alla neonata Life di Ernesto Vita.

Il progetto First era partito davvero bene e i dati raccolti al Motor Show '87 ci riempirono di fiducia: poi purtroppo vennero i problemi con Ecclestone e nonostante gli ultimi disperati tentativi, a tre settimane dall'inizio del campionato ci fu il ritiro. Un duro colpo davvero! A me non andò poi male perché da li a poco entrai in contatto con Vita che si disse interessato ad utilizzare il mio progetto per alloggiarvi il W12 di Rocchi. Fu così che mi dedicai alla modifica di alcuni particolari, principalmente agli ingombri del motore, diversi da quelli richiesti dal Judd. Ma il motore di Rocchi, rivisitazione di un progetto Ferrari del '68-69 poi accantonato, si dimostrò troppo fragile, a tal punto che non riuscimmo mai a compiere più di sei giri in una giornata di prove senza che si presentasse un grippaggio. D'altra parte sin dai tempi della Ferrari si era capito che il sistema biella-bielletta era troppo fragile.

Veniamo ad oggi: di cosa si occupa e quali sono i programmi futuri dell'Ingegner Marelli?

In questi anni la nostra attività è sempre stata caratterizzata dalla competitività estrema in cui eravamo chiamati ad operare: nel motociclismo per la Belgarda Yamaha, nella nautica per Tullio Abbate e Renato Molinari, in aerodinamica per il motore dell'elicottero ultraleggero Dragon Fly, nel settore automobilistico stradale per la Cizeta 16 cilindri ed altri prototipi come la Slim di Bertone. Oggi si continua a lavorare a 360° e solo domani si saprà cosa abbiamo fatto, sempre che possiamo dirlo. Di certo le corse sono sempre dietro l'angolo ed ogni occasione è buona per ritornare in pista.

Marco Zanello

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