Porsche 935 "Moby Dick"

Il Mostro

Introduzione

Nel famoso romanzo di Herman Melville, "Moby Dick", è difficile stabilire cosa sia più inquietante: il grande cetaceo bianco o la figura un poco sinistra e dannata del Capitano Achab, ossessionato dalla sua disperata caccia. Oppure il mare, con tutti gli umori e i misteri che si celano nei suoi abissi. Nemmeno la vecchia baleniera, il "Pequod", con la sua strana collezione di trofei ossei e i segni degli anni, sembra essere un posto così tanto sicuro, con il quale affrontare onde e mostri marini. Sicuramente, chi battezzò la Porsche 935/78 con il nome del celebre cetaceo bianco non intendeva fare riferimento alle vicende un po’ sinistre narrate in questo classico della letteratura americana, ma voleva solamente riferirsi all’elegante configurazione aerodinamica a coda lunga della macchina, che richiamava, insieme al colore bianco sotto la livrea Martini, le forme della balena romanzesca. Da quelle stesse forme, tuttavia, l’osservatore ricava una certa impressione d’inquietudine dovuta al loro carattere chiaramente estremo: la "Moby Dick", sin dall’approccio visivo e con una sincerità disarmante, si rivela una macchina difficile. La sensazione è confermata dalle parole di chi, come il pilota italiano Mauro Baldi, ebbe modo di guidare in pista uno dei quattro esemplari costruiti di questa vettura: "Moretti mi chiamò per la 1000 km di Spa e la 935 versione "Moby Dick" mi fece inizialmente un’impressione poco gradevole. A quell’epoca correvo in Formula 1 e la 935 mi sembrava più vicina allo spirito di una vettura elaborata, piuttosto che ad un’auto espressamente per le competizioni."

GENERAZIONE "935"

L’osservazione di Baldi centra in pieno lo spirito del regolamento in vigore a partire dal 1976, a cui la “Moby Dick” s’ispirava: tolto l’accento sugli sport prototipi, giudicati in fase calante, il Mondiale Marche era riservato al nuovo Gruppo 5, comprendente vetture che mantenevano una chiara fisionomia (silhouette) e componenti basilari di una vettura di produzione. Un ulteriore Gruppo 6 vedeva correre anche i prototipi, ma su distanze ridotte a 4 Ore, anziché le 6 o in alternativa i 1000 Km su cui si confrontavano le Silhouette. Sin dalla sua origine il Gruppo 5 possedeva un regolamento tecnico elastico che permetteva di stravolgere la macchina utilizzata come piattaforma di partenza, e si finì per andare ancora più in là, quando un certo permissivismo da parte della CSI avvallò parecchie estremizzazioni interpretative messe in atto dalle case e dai preparatori.. Al campionato 1976 parteciparono solamente la BMW con la 3,5 CSL aspirata e la Porsche con la 935/76, prima vettura di questa dinastia vincente, che doveva nascondere sotto le sue forme una 911 Turbo (modello 930). Partendo dalla 934, la Porsche destinata al Gruppo 4, i tecnici di Stoccarda, guidati dal responsabile di progetto Norbert Singer, si rivelarono subito creativi. La prima scelta riguardò la cilindrata del propulsore: il regolamento permetteva di agire solamente sull’alesaggio rispetto al motore di serie, e occorreva tenere conto del coefficiente 1,4 per equiparare le cilindrate dei motori turbo a quelle degli aspirati. Così si scelse di far scendere l’alesaggio a 9,28 mm e la cilindrata totale sotto i tre litri del turbo di serie, esattamente a 2.850cc. L’applicazione del coefficiente di comparazione collocava la vettura nella classe al di sotto dei 4.000cc e da regolamento ne derivava un peso complessivo di 970 kg, che la Porsche, specialista nell’uso di materiali leggeri, era certa di mantenere con facilità. Infatti, la prima 935 pesava solamente 880 kg e si dovette zavorrarla per renderla conforme. Il motore 6 cilindri boxer sovralimentato erogava una potenza di 590 CV a 7.900 giri/min, con la turbina regolata per fornire una pressione di 1,2 bar. Gli scambiatori aria-liquido furono sistemati sulle fiancate, davanti alle ruote posteriori. Le sospensioni furono modificate con l’introduzione di molle elicoidali al posto delle barre di torsione originali della 911 e, alzando l’attacco dei bracci al telaio, si riuscì a conferire alla geometria un comportamento antiaffondamento. Al posteriore, dove gravava la gran parte del peso, si aggiunse una barra antirollio regolabile dall’abitacolo. Per scaricare efficacemente tutta la potenza a terra, si ricorse all’uso di gomme speciali sviluppate dalla Dunlop con un maggiore diametro di rotolamento, visto il limite di 15 pollici imposto dal regolamento sulla larghezza. Gli pneumatici della 935 furono montati su poderosi cerchi da 19 pollici di diametro al posteriore e da 16 all’anteriore. Si giocò anche molto con l’aerodinamica, sfruttando l’ala a vassoio posteriore della 911 Turbo come supporto per un’altra ala più efficace ed arretrata. A metà stagione ’76 il cofano anteriore e i parafanghi furono fusi in un’unica forma in vetroresina con fari carenati, che offriva maggiore superficie e più stabilità aerodinamica rispetto alle forme originali. Fin dall’inizio, quindi, l’unico legame nitido che rimaneva tra la linea della 911 Turbo e quella della 935 era il padiglione e il taglio delle portiere. La 935/76 vinse inizialmente al Mugello e a Vallelunga, perse il confronto con le BMW 3,5 CSL a Silverstone, al Nurburgring e a Zeltweg per problemi d’affidabilità, dovuti ad una revisione dell’impianto di sovralimentazione imposta dalla CSI, ma poi tritò la concorrenza a Watkins Glen e a Digione, conquistando il Mondiale Marche. Del resto, ben difficilmente la BMW avrebbe potuto tenere testa alla Porsche con un motore che soffriva un gap di 40-50 CV rispetto alla concorrenza. Spaventata dalla potenza bruta della 935, la CSI cercò di apportare dei correttivi al regolamento, con l’obiettivo di avvantaggiare le vetture a motore anteriore come la BMW 3,5 CSL. La casa bavarese, però, non si ripresentò al via della nuova stagione, concentrando i suoi sforzi sul campionato tedesco, dove l’aspettava un più agile confronto con la Ford Escort nella classe 2 litri. La Porsche 935, evoluta nel tipo 77, era nel frattempo divenuta ancora più forte grazie a quelle modifiche regolamentari che, in teoria, avrebbero dovuto favorire le trazioni anteriori. Il telaio della vettura era ormai formato da una sezione tubolare dentro alla scocca centrale di serie. Tutta la parte posteriore, com’era già successo all’anteriore, fu inglobata in un’unica struttura di vetroresina, sfruttando a fondo le norme relative all’uso di appendici aerodinamiche. Sul fronte del propulsore, dalla grossa turbina singola si passò a due turbine più piccole che, grazie alla minore inerzia, diminuivano il turbo lag, facendo salire la potenza a 630 CV a 8.000 giri/min con una pressione di sovralimentazione di 1,4 bar. Inutile specificare chi vinse il Mondiale Marche 1977, con l’ultima evoluzione della 935 che correva in lungo ed in largo e la sola valida concorrenza delle 935/76 private. Questo strapotere costò alla Porsche una feroce campagna di stampa, attraverso cui fu messa in croce per non aver raccolto la sfida della BMW, che si stava battendo nella classe 2 litri del campionato tedesco, quando sarebbe stato più logico, invece, rimproverare la casa bavarese per non aver voluto continuare a battersi con rinnovati mezzi contro le 935 nel Mondiale Marche. L’atteggiamento della stampa tedesca fece imbestialire i vertici della Porsche, che decisero di schierare in fretta e furia una 935 “Baby” con motore turbocompresso di 1425cc. La nuova unità, nonostante la cilindrata ridotta, con una pressione di sovralimentazione di 1,4 bar erogava pur sempre la bellezza di 370 CV a 8.000 giri/min. Il pezzo di bravura fu, però, il dimagrimento del peso della 935 a 725 Kg, ben 245 Kg in meno del modello ’77: ciò implicò il ripensamento di tutti gli organi ed una nuova sospensione posteriore. La “Baby”, concepita e costruita in fretta e furia in appena tre mesi, fu mandata alla corsa di Norimberga dopo aver compiuto solamente un brevissimo shake down sulla pista di Weissach. Ciò rese comprensibile il ritiro di Jacky Ickx, stremato dal caldo e da una macchina risultata acerba ed ingovernabile. Ma ad Hockenheim gli avversari incassarono uno schiaffone terribile, perché la 935, sempre condotta da Ickx, in prova viaggiò due secondi sotto i tempi delle macchine avversarie e in gara terminò con un mezzo giro di vantaggio sulla seconda classificata. Dopo questa violenta rappresaglia, la macchina fu messa in naftalina e non corse mai più.

"MOBY DICK": ACT FOUR OF THE 935 SAGA

Nel 1977 la Porsche con la 935 aveva fatto suo il Mondiale Marche in Europa e il Campionato Trans Am negli Stati Uniti. Praticamente non c’era concorrenza e gli stessi obiettivi potevano dirsi già conquistati anche per il 1978, ma a Weissach non si dormiva sugli allori e Norbert Singer coltivava il sogno di sbancare la 24 Ore di Le Mans con una macchina derivata dalla serie come la 935. L’Aco Le Mans in quegli anni aveva avuto l’intelligenza di capire quanto il regolamento Silhouette fosse nocivo per il mondo dell’endurance, cercando di trasformare la celebre 24 Ore in una riserva protetta dove erano ancora i prototipi a giocare il ruolo determinante. La confronto in quel periodo era soprattutto fra la Porsche 936, vincitrice nelle edizioni ’76 -’77, e le Renault Alpine turbo. La casa di Stoccarda, con la sua nuova sfida, voleva introdurre un terzo elemento d’interesse, facendo al contempo concorrenza a se stessa. Al di là dell’obiettivo fissato da Norbert Singer, un ulteriore sviluppo della 935 era necessario per risolvere alcuni problemi emersi sulle versioni passate, a partire da una certa fragilità pavesata dai propulsori nel corso della stagione 1977. Già nel 1972 con il 12 cilindri boxer della 917 ci si era resi conto d’aver raggiunto un livello di potenza oltre il quale era difficile andare, se non ricorrendo ad una testata a quattro valvole per cilindro e doppio albero a camme in testa. Tale schema non era però compatibile con il dogma intoccabile dell’esclusivo raffreddamento ad aria, che aveva caratterizzato le Porsche da corsa e di serie fin dagli inizi. All’epoca si trovò la risposta miracolosa nella sovralimentazione, che permise di raggiungere potenze astronomiche senza dover ricorrere alle quattro valvole per cilindro, né violare la santità del raffreddamento ad aria. Il turbo era poi dilagato sulle 911 di serie e sulle successive generazioni di vetture da corsa, facendo della Porsche una delle poche case in grado di padroneggiare una tecnologia che negli anni ’70 veniva considerata ancora acerba e pionieristica. Ora, con il sei cilindri della 935 si era raggiunto nuovamente il limite dello schema a due valvole, ed ulteriori aumenti di potenza si potevano solamente ottenere con pressioni di sovralimentazione tali da mettere in crisi la proverbiale affidabilità della meccanica, oppure ricorrendo alle quattro valvole e al raffreddamento a liquido. E questa volta non c’erano santi, né tecnologie del miracolo per evitare il ricorso a questa soluzione. Un’analisi tecnica su minacce e opportunità delle varie soluzioni possibili, portò l’equipe di Norbert Singer a scegliere una cilindrata di 3,2 litri che, con l’applicazione del coefficiente 1.4, significava collocare la nuova macchina nella classe tra i 4.000 e i 4.500cc, a cui equivaleva un peso di 1025 Kg, superiore a quello delle precedenti versioni. D’altra parte, secondo i calcoli, il vantaggio di potenza ottenibile con un incremento di cilindrata era tale da compensare l’aumento del peso. Con un alesaggio di 95,8 mm e una corsa di 74,4 mm, il propulsore presentava un nuovo schema di distribuzione con quattro valvole al sodio per cilindro, mosse da due alberi a camme in testa. Per non sradicare del tutto la tradizione costruttiva della casa e per rispettare il regolamento, che imponeva l’uso del blocco cilindri di serie, si limitò alle testate il raffreddamento mediante acqua, lasciando alla classica ventola il raffreddamento dei cilindri. Sulla 935/78 gli appositi radiatori furono sistemati davanti ai parafanghi anteriori. La minore quantità d’aria richiesta, consentì di spostare la ventola, che girava con un rapporto di 1,34 volte rispetto l’albero motore, dalla posizione orizzontale sopra al blocco a quella verticale, classica dei motori 911. Inoltre, la maggiore facilità d’accesso alle valvole rese superfluo l’uso di guarnizioni di testata, sostituite da una saldatura a raggio in electron. Sulla base della positiva esperienza con la 935/78, lo schema di sovralimentazione prevedeva ancora due turbine KKK. Il nuovo motore erogava così la bellezza di 750 CV a 8.200 giri/min, con una pressione tra 1,4 e 1,5 bar e una temperatura di funzionamento dei cilindri che passava dai 280°C del motore interamente raffreddato ad aria a 200°C, migliorando l’affidabilità e riaprendo la corsa alla crescita delle potenze. Nell’impostare la nuova macchina, si provvide a risolvere il problema ai semiassi, verificatosi sulle vecchie 935 nella stagione precedente. La causa fu individuata nell’elevato angolo, imposto dai cerchi posteriori da 19” di diametro, a cui dovevano lavorare i giunti, sollecitati da potenze sempre maggiori. La soluzione fu individuata ruotando longitudinalmente di 180° il cambio e riprogettando la scatola e la frizione, in modo che i semiassi lavorassero al di sopra dell’albero primario e non al di sotto. Particolare cura fu posta nella progettazione dell’impianto frenante, in considerazione dell’elevata velocità di punta che si desiderava raggiungere. Questo settore era un altro fiore all’occhiello della Porsche, che aveva sempre sviluppato soluzioni d’avanguardia. La 935/78 fu dotata di leggeri dischi traforati da 332mm di diametro e 32mm di spessore, uniti a pinze monoblocco in lega leggera a 4 pompanti con guarnizioni in amianto. Intorno alla cellula centrale della Porsche 911, integrata da un leggero e rigido telaio tubolare in alluminio, si provvide a disegnare una forma aerodinamica a coda lunga, particolarmente adatta al circuito di Le Mans, che con l’allora interminabile rettilineo dell’Hunaudieres, rendeva vantaggiosa la ricerca di un’elevata velocità di punta a discapito della maneggevolezza sul misto. Nella ricerca di questo obiettivo, ancora una volta Norbert Singer si dimostrò molto creativo nell’interpretazione del regolamento tecnico Gruppo 5, forte anche del potere politico derivato dalla massiccia e all’epoca ineguagliata presenza nel mondo dell’endurance. Con estrema fantasia, Singer sfrutto l’articolo che consentiva il rialzo del pavimento della vettura fino all’altezza dei brancardi delle porte. Grazie al taglio del pavimento originale e alla sua sostituzione con un rinforzo tubolare e una lamina in vetroresina, riuscì ad alzare il fondo della vettura fino a 7,5 centimetri. A questo punto fu sufficiente sfruttare un buco regolamentare per abbassare tutta la parte centrale della carrozzeria di 7,5 centimetri, ottenendo una linea del tetto più bassa. Nessuno poté obiettare nulla. Allo stesso modo si sarebbe voluto far passare la carenatura delle porte (che nelle precedenti 935 mantenevano la sagoma di quelle originali della 911, rientranti rispetto alla larghezza dei cofani posteriore e anteriore) come un prolungamento delle appendici aerodinamiche posteriori. Lo stratagemma avrebbe consentito una migliore deportanza, ma la CSI obiettò che il limite d’estensione delle appendici aerodinamiche esterne era il centro della vettura. La Porsche si dovette accontentare di carenare la parte anteriore delle portiere , conseguendo almeno parzialmente l’obiettivo. Non si poté però utilizzare un’ala posteriore della medesima larghezza della carrozzeria, non sufficientemente efficace, e si dovette ripiegare su un altro tipo più stretto e montato più in alto. D’altra parte, per ottenere una forma così affusolata, la Porsche aveva dovuto omologare la 935/78 come un’evoluzione della 911SC aspirata e non della Turbo, che presentava di suo l’ingombrante spoiler a vassoio, non compatibile con la forma a coda lunga. Interessanti i valori ottenuti con questo tipo di carrozzeria: il coefficiente di penetrazione era pari a 0,358 con una riduzione della resistenza aerodinamica del 10%, grazie ad una sezione frontale leggermente ridotta rispetto alle vecchie 935. La portanza aerodinamica anteriore, problema piuttosto rilevante su altri modelli derivati dalla 911, veniva ridotta, ma in compenso la configurazione a coda lunga aumentava la portanza al posteriore. La macchina fu inviata alla 6 Ore di Silverstone, nel maggio del 1978, dove sbaragliò la concorrenza con Jochen Mass e Jacky Ickx al volante, lasciando tutti gli altri avversari a sei giri. La vittoria inglese pareva essere di buon auspicio per la successiva 24 Ore di Le Mans, ed infatti la vettura, affidata a Rolf Stommelen in coppia con Manfred Schurti, segnò uno strepitoso giro di qualifica in 3’30”900, piazzandosi al terzo posto, direttamente alle spalle della 936 di Ickx-Pescarolo-Mass (3’27”600) e della Renault Alpine A443 di Jabouille-Depailler (3’28”400). Ciò significava che l’equipaggio tedesco aveva “sverniciato” ben tre altre Alpine e due 936 in grado di lottare per la vittoria assoluta. In gara la “Moby Dick” si mantenne a lungo nelle posizioni di testa, facendo segnare un’ottima velocità di punta pari a 366 Km/h, ma a sei ore dal termine un incomprensibile trafilaggio d’olio consigliò alla squadra di alzare il ritmo pur di raggiungere il traguardo. Stommelen e Schurti terminarono così all’ottavo posto. La Porsche quell’anno rimase beffata: non soltanto non riuscì a vincere con la “Moby Dick” derivata dalla 911 di serie, ma nemmeno con le 936, costrette a cedere all’Alpine Renault di Pironi-Jaussaud. Dopo la corsa si smontò il motore della 935/78, scoprendo che il trafilaggio era stato causato da un banale problema e che la meccanica non era stata minimamente intaccata. La Porsche utilizzò la “Moby Dick” in altre due corse nel settembre di quell’anno ma, nonostante la conferma delle potenzialità velocistiche, mancò l’affidabilità: alla 6 Ore di Vallelunga Jacky Ickx e Manfred Schurti, in testa con largo vantaggio sugli avversari, furono costretti al ritiro da problemi all’iniezione meccanica proprio quando si stava entrando nelle fasi finali della corsa. Analogo destino per il solo Ickx alla 200 miglia del Norisring, ultima corsa della “Moby Dick” prima che la Porsche decidesse di ricoverarla definitivamente nel suo celebre museo. In naftalina finì anche la sua erede, che doveva essere dotata di un fondo in grado di sfruttare l’effetto suolo e che non andò oltre la fase progettuale, causa il ritiro dello sponsor Martini Racing. L’obiettivo di vincere Le Mans con una macchina derivata dalla serie fu ugualmente conseguito l’anno successivo da una 935 3 litri biturbo, preparata e schierata da un team privato, il Kremer, che ebbe l’intuizione di usare nuovi elementi aerodinamici in Kevlar anziché in vetroresina e di sostituire gli scambiatori aria-liquido con quelli più efficaci aria-aria. E’ la famosa vittoria della pipì: il pilota Don Whittington, infatti, costretto a fermarsi lungo la pista per un guasto ad una delle turbine, ci urinò sopra per raffreddarla e poter improvvisare una riparazione sufficiente a riportare la macchina ai box. L’unico altro esemplare di “Moby Dick” costruito direttamente dalla casa, utilizzato come vettura di riserva, giace attualmente smontato nell’attesa di restauro. Se la Porsche rifiutò di costruire altre “Moby Dick” per i numerosi clienti interessati, e tanto meno di fornire i motori da 3.211cc con testate a quattro valvole, ciò non significa che a questo punto si concluda la storia di questo modello.

“MOBY DICK”: SOGNI E FANTASIE

Il bolide, con le sue forme e le prestazioni velocistiche, aveva bucato nella fantasia del pubblico e fatto sognare tanti team privati ben oltre il tempo in cui una macchina da corsa si poteva definire vecchia. I più cercarono d’ispirarsi a ciò che avevano potuto osservare in pista, ma nel 1980 Reinhold Joest, titolare dell’omonimo team, ottenne dalla Porsche i disegni del telaio e della carrozzeria della “Moby Dick”. Ne costruì un primo esemplare eliminando la parziale carenatura delle portiere, che appaiono con il disegno originale 911. La nuova “Moby Dick”, telaio 935/81 JR001, era destinato a correre nel Deutsche Rennsport Meisterchaft (DRM), o anche Campionato Nazionale Tedesco, nato nel 1972 e considerato l’antenato del DTM. Questa serie viveva il suo momento di maggiore popolarità proprio grazie all’ammissione del Gruppo 5 nelle sue corse, attirando team da tutta Europa. Se alla fine la Porsche passò i disegni del tipo 935/78, fu invece irremovibile nel non voler concedere anche il propulsore originale e così Joest dovette ricorrere ad una versione del 6 cilindri boxer 3,2 a due valvole e raffreddamento interamente ad aria, riconoscibile per la grande ventola orizzontale sopra al blocco. Questo tipo di motore, costruito dal reparto clienti con la collaborazione della Mahle, era stato preparato fin dal 1978 per offrire un’evoluzione anche ai team privati e mantenerli al passo con i modelli ufficiali della casa. Più tirato e quindi fragile del quattro valvole, il propulsore con una pressione di sovralimentazione compresa tra 1,6 e 1,7 bar poteva fornire per brevi periodi anche 800 CV. Dopo la positiva esperienza sulle 935 del team Kremer nel 1979, la Porsche aggiornò questi motori con scambiatori aria-aria, che sulla “Moby Dick” di Joest furono montati davanti ai parafanghi posteriori. Il team tedesco mantenne sul suo modello anche la caratteristica guida a destra, che Singer aveva previsto sul progetto originale, in considerazione del senso orario di circolazione usato sulla maggior parte delle piste. Joest chiamò Jochen Mass a guidare la macchina nel D.R.M. L’ex pilota di Formula 1 mise a segno una striscia in crescendo, a partire da un terzo posto a Zolder, un secondo alla 300 Km del Nurburgring e finalmente la vittoria a Hockenheim. Nell’aprile del 1981 la macchina fu venduta a Gianpiero Moretti, patron della Momo e dell’omonima scuderia che correva nel campionato IMSA. Moretti portò la macchina negli Stati Uniti e in coppia con Jochen Mass giunse quattordicesimo sul velocissimo circuito di Riverside, dopo aver mostrato un ottimo potenziale nelle prime fasi di gara. Quell’anno Moretti si fece affiancare in alcune gare anche da Al Holbert e Bobby Rahal, cogliendo come migliori risultati due secondi posti a Mid Ohio e a Portland. Nel 1982 la macchina fu schierata in Europa, dove si dimostrò già molto meno competitiva che in America. Del resto, proprio in quell’anno era andato in pensione il vecchio e poco azzeccato regolamento Silhouette, sostituito dalla nuova formula consumo, che imponeva un determinato quantitativo di carburante per gara. La nuova arma assoluta della Porsche era la 956, che si dimostrò un autentico asso pigliatutto. Nella sua stagione europea, Moretti si fece spesso affiancare dal già citato Mauro Baldi, che qualche anno dopo riportò ad Autosprint le sue inquietanti impressioni di guida: “Era una vettura che definirei ‘avventurosa’. Una potenza terrificante, ma tutto il carico aerodinamico e il grip meccanico era focalizzato sul retrotreno. L’avantreno era leggerissimo, praticamente non girava. La Porsche era all’inizio della tecnologia del motore turbo. I cavalli c’erano, ma solo agli altissimi regimi e con il manettino della pressione al massimo. Fuori dalle curve lente il motore si piantava, il “calcio” che arrivava quando il turbo prendeva era terrificante. Il cambio aveva 4 marce, ma quello non era il problema. Anche con più rapporti, il ritardo di potenza sarebbe stato ugualmente fastidioso. [] I freni erano inesistenti, e dopo tre giri al limite per bloccarsi ci sarebbe voluto il paracadute. [] Tutto dipendeva dal mostruoso alettone posteriore e da gomme di una larghezza esagerata. Se uno di questi elementi si alterava nella sua efficacia, la vettura era ingovernabile.” In effetti, la macchina non andò oltre al quarto posto conquistato nella gara di maggio al Salzburgring. Nel 1983 Moretti riportò la sua “Moby Dick” negli Stati Uniti per correre ancora nel campionato IMSA, dove si fece affiancare da Bob Wollek e da Serel van der Merwe, ottenendo un secondo posto a Pocono e due terzi a Road Atlanta e Riverside. Dopo quella stagione la macchina fu ritirata, anche se Moretti la vendette soltanto nel 1993. In seguito a vari passaggi di proprietà la “Moby Dick”, ripristinata nella sua livrea originale bianca con scritte nere, è giunta nelle sapienti mani del preparatore e pilota francese Yvan Mahe, che nell’aprile del 2009 l’ha riportata per la prima volta in pista in occasione della gara del Classic Endurance Racing abbinata alla 1000 Chilometri di Barcellona. Andiamo in cerca di conferme e Mr. Mahe, anche se si trova ancora immerso in una sorta di luna di miele con quest’auto che possiede solamente da un anno, non nasconde che “ la “Moby Dick” è molto difficile da portare al limite. Il suo vero punto di forza è la velocità di punta, anche in virtù della sua particolare configurazione aerodinamica a coda lunga. L’ideale sarebbe una pista veloce come Monza, ma qui al Montemelò, con tutte queste curve non è molto a suo agio.” Ammette, però, che il ripristino della meccanica non e ancora finito: “E’ molto difficile da settare, anche perché dopo il passaggio di proprietà abbiamo dovuto lavorare molto per riportare la meccanica in condizione corsa. Non c’è stato il tempo per regolare le sospensioni, né per tarare la pressione di sovralimentazione del turbo, che non posso sfruttare completamente.” Se la macchina non è così facile da portare al limite, rimane sicuramente la soddisfazione di possedere uno dei quattro esemplari di “Moby Dick” e il primo costruito da Reinhold Joest. Il team manager tedesco, infatti, allestì un secondo telaio (935/81 JR002) per John Fitzpatrick, pilota d’origine inglese, campione Europeo di Gran Turismo nel 1972 e poi vincitore della 24 Ore di Daytona nel 1976 e della 12 Ore di Sebring nel 1980. “Nel 1980 mi ero trasferito in America per guidare nel Dick Barbour Racing Team.” - ha raccontato a Connectingrod lo stesso Fitzpatrick – “Ho corso e vinto il campionato IMSA con la loro Porsche 935 K3 preparata da Kremer. Alla fine della stagione 1980 Dick Barbour chiuse il suo team e io decisi di aprire una squadra per conto mio con un’officina a San Diego, in California. Comprai da Kremer la 935 K3 Jagermeister di Bob Wollek e corsi ancora nel campionato IMSA senza molto successo, perché era stata varata la nuova classe GTP ed era difficile competere contro queste vetture con la K3. Così per il 1982 decidemmo di comprare una K4.” In effetti, per permettere alle GTX di competere con le più veloci GTP, fu notevolmente liberalizzato il regolamento. Le 935 partecipanti al campionato furono pesantemente rimaneggiate nel telaio, che ora poteva essere completamente tubolare e nell’aerodinamica, che ogni preparatore sviluppava secondo le proprie intuizioni, divorando le ultime somiglianze con la 911 di serie a colpi di compositi. “Volevamo anche partecipare a Le Mans.” – continua Fitzpatrick – “ma la Porche 956 non era disponibile per i clienti. La K4 era una macchina ad elevato carico aerodinamico e quindi non adatta per Le Mans, così decidemmo di comprare una nuova “Moby Dick” da Joest. Avevamo visto la macchina che Joest aveva costruito a Moretti per l’IMSA e pensavamo sarebbe stata buona per correre a Le Mans. Questa macchina era molto aerodinamica e il suo motore da 2,8 litri andava piuttosto bene per la formula consumo in vigore a quel tempo. Il 3,2 litri della K3 e della K4 avrebbe usato molto più carburante. Volevamo stare con la Porsche, così comprammo la miglior cosa prossima alla 956.” L’esemplare costruito per John Fitzpatrick presentava le portiere secondo il disegno originale di Norbert Singer: gli sportelli carenati, infatti, sigillavano completamente la carrozzeria tra i due cofani. Due generose prese Naca ricavate nella carenatura, portavano aria agli scambiatori delle turbine, posti davanti ai parafanghi anteriori. Ciò era stato possibile per l’entrata in vigore del nuovo regolamento GTX, mentre il primo esemplare costruito da Joest seguiva la normativa CSI relativa al Gruppo 5. John Fitzpatrick non aveva sbagliato i suoi conti: voleva stare con le Porsche ufficiali e, infatti, in coppia con l’esperto David Hobbs, finì la 24 Ore di Le Mans del 1982 al quarto posto, vincendo la categoria GTX IMSA, dietro alle 956 di Ickx-Bell, Mass-Schuppan e Haywood-Holbert-Barth. Dopo la 24 ore di Le Mans, la macchina fece ancora un paio di corse in Germania, con David Hobbs al Norisring e con lo stesso Fitzpatrick ad Hockenheim. A novembre dell’82 la “Moby Dick” ricomparve alla 9 Ore di Kyalami, in Sudafrica, dove il pilota inglese condivise la sua macchina con Desirèe Wilson. In nessuna delle tre corse la vettura vide il traguardo. Per ritrovare competitività, la “Moby Dick” dovette sbarcare in America e debuttare nel campionato IMSA: alla 3 Ore di Daytona, gara conclusiva del campionato 1982, la macchina si qualificò al primo posto in griglia e giunse seconda al traguardo con l’equipaggio Fitzpatrick Hobbs, dietro alla Lola T600 motorizzata Chevrolet dell’Interscope. Al suo arrivo negli Stati Uniti la “Moby Dick” subì alcune modifiche, tra cui la chiusura delle prese Naca nelle portiere, sostituite da feritoie più piccole sistemate davanti al parabrezza anteriore, in una zona di maggiore pressione aerodinamica che permetteva di inviare più aria agli scambiatori. La soluzione era stata copiata dalla Porsche 935 K4 con cui Fitzpatrick si era dimostrato estremamente competitivo durante la stagione 1982, cogliendo 4 vittorie. Nel 1983 la “Moby Dick” fu schierata una prima volta in febbraio al Gran Premio di Miami, dove giunse ottava con Jochen Mass al volante. In aprile, invece, la macchina si presentò al via della 6 Ore di Riverside, affidata ad un equipaggio d’eccezione composto da Derek Bell e da Rolf Stommelen, che qualificò la macchina al secondo posto, rivelandosi molto competitivo. Purtroppo in gara la “Moby Dick” patì il distacco dell’ala posteriore e Rolf Stommelen non poté far nulla per controllare quella bestia impazzita che si schiantò tragicamente fuori pista, portandosi via la sua generosa vita di pilota. “Rolf era un grande amico,” – ricorda Fitzpatrick, che quel giorno vinse la corsa sulla 935 K4 – “e non volli riparare la macchina e farla correre ancora. Ho tenuto la maggior parte dei pezzi danneggiati e solamente l’anno scorso ho venduto il rottame in California e ora stanno ricostruendo la macchina per le corse storiche.” Qualcuno si spinge a considerare una “Moby Dick” anche la 935 L costruita nel 1982 dalla Andial, preparatore Porsche in Nord America, con l’aiuto di Glen Blakely. La macchina, dotata di un motore 3,2 litri turbo elaborato dalla Andial stessa, aveva però un telaio più basso rispetto alle altre, una carreggiata anteriore più larga e la coda in un unico pezzo di vetroresina, che comprendeva il lunotto e i parafanghi posteriori. Le prese d’aria per gli scambiatori erano ricavate sul bordo superiore delle portiere, mentre sull’anteriore una coppia di fari a centro cofano integrava quelli già presenti sul muso. Il maggior punto di parentela con le altre “Moby Dick” era sicuramente il disegno della coda lunga, che s’ispirava fortemente alla linea ideata a suo tempo da Norbert Singer per la 935/78. All Holbert e Harald Grohs con questa vettura si classificarono al secondo posto alla sei ore di Riverside del 1982. La macchina fu poi venduta a Preston Henn, che con A.J. Foyt, Bob Wollek e Claude Ballot Lena la portò al successo alla 24 Ore di Daytona del 1983, quando, in fondo, la si poteva considerare già più che vecchia come concezione. La macchina risultò prestante anche nell’edizione 1984, quando si classificò al secondo posto con A.J. Foyt, Bob Wollek e Derek Bell, e terza alla 12 Ore di Sebring, sempre con il medesimo equipaggio. Era però giunto il tramonto per una classe di vetture che, grazie alla forte attività dei preparatori privati, era andata ben oltre le speranze della Porsche stessa, segnando per diversi anni la storia delle gare Endurance. A conclusione di questo viaggio nel mondo delle Porsche 935/78 e delle sue repliche, viene da pensare che in fondo ogni macchina da corsa rappresenta una sorta di “Moby Dick”, ed ogni pilota rassomiglia un po’ al capitano Achab, che cerca di dominare il suo mostro in mezzo ad un mare d’asfalto, la pista. Al pari di un mare vero, anche questa vive dei suoi umori e misteri. Noialtri appassionati rappresentiamo la ciurma del Pequod, riottosa, passionaria ed emotiva, ma indissolubilmente legata alla lotta tra il suo capitano e il bianco mostro marino.

Stefano Costantino

  • A.A.V.V., La sfida che dura un giorno, allegato ad Autosprint, Bologna, 2000
  • Frère P. Porsche 911, il mito di Stoccarda, Giorgio Nada Editore s.r.l., Viendrone, 2004
  • Gallagher S. e Smith E., La vera storia della Porsche, Gribaudo Parragon, Milano, 2004
  • Guizzardi G., Rizzo E., Cento anni di automobilismo sportivo,Edizioni White Star, Vercellli, 2001
  • Mannucci C.M. Le grandi sfide, in Autosprint, Bologna, 2003

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